DOPO IL 25 SETTEMBRE ...

 Dopo il 25 settembre…




 

Come si poteva, ahimè, immaginare, il tema sul quale il nuovo governo sta accendendo maggiormente, in senso peraltro polemico, i riflettori mediatici, è quello dei “migranti”. Più precisamente, quello degli sbarchi e dei rifugiati.

Italia e Francia si stanno rinfacciando accuse di disumanità e d’irresponsabilità su tale dossier, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione proprio in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita. 

Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, ci ha ricordato “Avvenire” nei giorni scorsi, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.

Secondo Eurostat, infatti, nel 2021 sono arrivate ai governi dell’Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.

Ma tant’è! Il governo della nostra prima donna “premier”, ha scelto di continuare a fare campagna elettorale e di parlare pertanto alla “pancia” del “popolino”. E lo fa seguendo come argomenti, tra l’altro, la sacralizzazione dei confini e la colpevolizzazione delle Ong. 

D’altronde, lo sappiamo, il 25 settembre è accaduta una “rivoluzione” impensabile, forse, qualche mese prima, rivoluzione che, a fine elezioni, grazie anche all’assurdo meccanismo della nuova legge elettorale, ha consegnato alla destra 235 seggi su 400 alla Camera e 115 su 200 al Senato: il 60% circa dei posti. Più precisamente, però: i “Fratelli (?) d’Italia”, oggi, sono il primo partito, avendo ottenuto (leggo le percentuali della “Camera”, sostanzialmente ripetuti, mi pare, al Senato), il 26,9% dei consensi, e dunque più che ‘sestuplicando’ il 4,3% del 2018. Una percentuale evidentemente eccezionale, che, certo, stupisce. Conseguita però in gran parte, non si può non chiarire immediatamente, a scapito dei compagni di cordata (diciamo anzi “cannibalizzandoli”), rappresentati al vertice dagli “spompati” Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Il primo ha infatti perso la metà dei voti delle precedenti “politiche”, il secondo (il quale pur sperava di rifarsi assumendo il ruolo di “profeta moderato”, e dunque appetibile, del “destracentro”), più del 40%. Il trionfo di Fratelli d’Italia è però in buona parte merito della loro leader, che, da furbetta, si è destreggiata bene (ci capiamo in quale senso) in campagna elettorale, ed è quasi diventata, ormai, la “donna-copertina” della politica italiana, 

Va da sé che per un vecchio democristiano “di sinistra”, come me, l’idea che il principale partito di governo sia oggi rappresentato dagli eredi del MSI, a sua volta obiettivamente figlio in buona misura degli ambienti, diciamo, postfascisti del dopoguerra, suscita, detto eufemisticamente, un po’ di sconcerto. Intendiamoci: facendo un accenno alla polemica su “fascismo e antifascismo”, che l’exploit della Meloni ha acuito, sollevando anche, appunto, non poche preoccupazioni, io chiarisco che sono certo che il “fascismo”, perlomeno nelle sue forme tradizionali, è morto e sepolto. Nessun ritorno al 1922, dunque! E ci mancherebbe! Anche perché Giorgia non è stupida, è furba, come detto, e non farà certo errori clamorosi, in proposito. Pur se non si può dimenticare che il suo partito, com’è stato scritto, è “pieno di vecchi e nuovi nostalgici, animati soprattutto dall’idea di prendersi una rivincita contro la grande scelta democratica del primo gennaio 1948, che chiuse definitivamente la bruttissima pagina aperta ventisei anni prima con la ‘Marcia su Roma”.

Il fatto è che gli appelli a non lasciare aperta la strada ai fascisti (o ai “populisti”, come si è ripetuto, di fatto senza alcun risultato, in questi ultimi anni) hanno avuto un effetto limitato. In primo luogo, perché una parte consistente degli elettori, anche di quelli più anziani, si è ormai lasciata alle spalle i valori e principi del patto costituzionale. La politica italiana non poggia più se non in piccola parte su un terreno comune, e anche la sinistra e i liberali hanno dato un contributo significativo a dissestarlo. La frana è già in corso da tempo, come abbiamo visto negli anni dell’ascesa del M5S. Nel nuovo clima, la prospettiva di una maggioranza in cui c’è un partito che ha un significativo legame, mai del tutto reciso, con il neofascismo post-bellico, non smuove le coscienze più di tanto. La paura spinge anzi molti ad affidarsi a chi si fa un vanto della propria forza. Anni e anni di erosione dei legami di solidarietà allargata hanno abituato gli italiani a pensare in primo luogo a se stessi, e le aspettative decrescenti del ceto medio lo rendono più che disponibile a provare un’alternativa a chi non riesce a proporre qualcosa di diverso dal modello sociale emerso dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. 

Ciò detto, io non riesco a dimenticare che Giorgia Meloni, in un’intervista all’agenzia spagnola Efe, ha dichiarato di sperare che “la vittoria di Fratelli d’Italia alle elezioni apra la strada a quella di ‘Vox’ in Spagna…”. La Meloni, che ha pure partecipato ai congressi di quella formazione politica, ha aggiunto di essere unita “dal rispetto reciproco, dall'amicizia e dalla lealtà” con Santiago Abascal, leader di quel partito sedicente “d’ispirazione cristiana” ma integralista dal punto di vista religioso, e che cerca di riempire lo spazio ideologico di estrema destra definendosi nazionalista e rifacendosi a neofranchismo, conservatorismo nazionale, conservatorismo sociale, euroscetticismo, populismo, appunto, di destra, ultranazionalismo, antislamismo, monarchismo. Si definisce persino “antifemminista”. Vuole proteggere la nazione spagnola sia dalle minacce interne (il secessionismo), che da quelle esterne (l’immigrazione). I suoi esponenti chiedono così la chiusura delle frontiere, la “deportazione degli immigrati clandestini nei loro Paesi di origine”, e condannano le “mafie dell’immigrazione clandestina” (o chiunque collabori con loro "come le Ong"). 

 

E che dire dell’entusiasmo che la premiership della Meloni ha suscitato in Putin, il recente, caro amico sia di Berlusconi sia di Salvini, nel figlio di Bolsonaro, che ne celebra la vittoria asserendo quasi commosso che Giorgia è tutta “Dio, patria e famiglia”, e in Viktor Orban, il noto ras dell’Ungheria? 

 

Tutto ciò detto, ribadisco di essere consapevole che “il presidente” Meloni non è sciocca e sa cosa significa essere capo del governo. Ciò che preoccupa è allora altro. Questo governo sta per proporre infatti iniziative “dirompenti”: sul piano ‘costituzionale, il “Presidenzialismo” (con correlative voglie di “un uomo solo al comando”?), il disegno di un’Italia, nel contempo, sovrana e “federale”, che consenta alle Regioni più forti e più ricche di ottenere il massimo di autonomia, che verrebbe dunque diversificata, probabilmente, tra Sud e Nord; un nuovo sistema fiscale “innovativo”, che però è già stato definito da politici e da esperti “ingiusto, regressivo e classista”. Si tratta, ha affermato Enrico Letta, di proposte che prefigurano un’Italia che assomiglia molto alla “grande Ungheria” del citato Viktor Orban, nazione nella quale, tra l’altro, le diseguaglianze sono molto cresciute begli ultimi anni, segnalano gli specialisti. Sul piano “internazionale”, infine, una linea melonian/salviniana -comunque “mediata”- che potrebbe finire col provocare una brutta rotta di collisione con l’Europa.

 

“Questa destra mi fa tremare i polsi”, aveva detto alla vigilia delle elezioni l’ex segretaria generale della Cisl (il mio sindacato durante tutta la vita lavorativa), Annamaria Furlan, ora senatrice PD. La quale ha ulteriormente precisato che: “…mi preoccupa moltissimo questo modello di destra… È una compagine dove Salvini dice che sono sbagliate le sanzioni alla Russia, e dove Orban è un punto di riferimento “particolare” per la Meloni, che parla, a riguardo dell’Ungheria, di un ‘modello di comunità’. Spero allora che le donne italiane non diano il loro voto a chi potrebbe restaurare nel Paese meccanismi che negano i diritti conquistati dalle donne. Quando si guarda al premier ungherese, che pochi giorni fa ha detto che è meglio che le donne non si laureino perché questo complica la vita delle famiglie e della società, tremo ad immaginare i passi indietro che si potrebbero compiere”. 

 

Ecco allora che il nostro NO al governo Meloni ha motivazioni reali, concrete, non ideologiche (perlomeno non nel senso tradizionale del termine). Pensiamo forse di salvare la nostra "identità" (tanto declamata da Giorgia) rinchiudendoci nel nostro recinto 'nazionalista'? Chiudendo i confini per fermare gli straordinari flussi migratori? E come affrontare dunque la nuova globalizzazione, la “quarta” rivoluzione industriale, l’aumento sistematico delle diseguaglianze sociali, le nuove questioni ambientali e climatiche? Con i sovranismi, i nazionalismi, i populismi, che mirano a parlare alla pancia del popolo, invece che al cervello e al cuore? Sciocchezze!! C'è bisogno, al contrario, di uno sforzo estremo per dare molta più forza alle istituzioni pubbliche sovranazionali, internazionali, mondiali. Ma anche di puntare alla pace e al disarmo (pur sapendo ovviamente distinguere, nel caso della guerra in Ucraina, chi è l’invasore e chi l’invaso). Ciò, giusto per riuscire a governare debitamente detti fenomeni, affinché producano effetti positivi su scala, possibilmente, mondiale, e non accrescano, viceversa (come sta in parte accadendo), il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri. 

 

Certo: la questione immigrati ha da essere risolta a livello “europeo”. Ma lo sbarco “selettivo”, stigmatizzato con forza dalla stessa Conferenza episcopale italiana, è abominevole, prima che illegale, come pure è stato definito. Checchè ne dica con prolisso linguaggio tecnico-giuridico, come pure ha detto, il neoministro della Giustizia, Carlo Nordio. Dovrebbe capirlo per prima la nostra, appunto, Premier “muier y madre cristiana”, e segnalarlo agli altri “devoti” del suo governo e al cattolicissimo presidente della Camera. Quanto a Salvini, la domanda da porgli sarebbe: ma nei tanti anni che sei stato parlamentare europeo, come ti sei dato fare per proporre soluzioni in proposito? 

 

E non è poi da sottovalutare la volontà di Meloni e Salvini di modificare l’articolo 117 della Costituzione, che condiziona l’attività legislativa di Stato e Regioni al rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Ed è necessario avere niente più che del semplice buon senso per capire che quei vincoli sono la garanzia della credibilità nostra – e soprattutto del nostro debito pubblico – sui mercati e sulle piazze finanziarie internazionali, dove vengono negoziati i titoli di Stato italiani. Un’Italia sganciata dall’Unione Europea in termini politici ed economici non lascerebbe tranquillo nessuno sia sul piano interno che su quello internazionale. Come anche la sola idea di poter “ricontrattare” le risorse del “Next Generation EU” (più noto come intervento per il PNRR) tradisce un misto d’incapacità e avventatezza ideologica antieuropeista.

 

Proseguendo, va certo considerato che Il nostro Parlamento non è più, da mezzo secolo, il cuore della democrazia, ma una specie di vetrina mediatica dove la classe politica esibisce la propria variopinta mercanzia, non sempre dando il meglio di sé. Ma l’elezione di La Russa e Fontana a capo, rispettivamente, di Senato e Camera, è parsa quasi una “provocazione” della destra. Provocazione in questo senso: tradizionalmente, i “vincitori” delle elezioni politiche, per le cariche sopra citate finivano col scegliere, comprensibilmente, personaggi, comunque, in qualche misura “equilibrati” e non divisivi. Stavolta sono stati scelti, invece, due nomi che più divisivi di così non potevano essere: Ignazio Benito (nomen, omen…?) La Russa -eletto peraltro anche grazie alla pattuglietta di 18 senatori dell’opposizione-, ovvero il “collezionista di cimeli fascisti” (fascist memorabilia), ha scritto il Guardian. Ignazio, figlio di Antonino, già segretario del Partito nazionale fascista di Paternò e poi senatore del Movimento sociale italiano, nota forza politica di nostalgici dei …bei tempi. Basterebbe forse questo per essere infastiditi dalla sua nomina. Certo, i tempi, poi, cambiano, e anche se girano sul web foto del “nostro” insieme ai “Ciccio Franco” del “boia chi molla”, il neopresidente del Senato ha fatto, mi vien da dire “ovviamente”, un discorso politicamente corretto: “Sarò super partes”, “il presidente di tutti”. Ma le conversioni “alla san Paolo”, oggi, suscitano qualche dubbio. Il presidente Fontana, ex ministro della Famiglia nel “Conte1” arenatosi al “Papeete”, per parte sua viene descritto come un “cristiano super tradizionalista, diciamo “integralista”, amico di porporati statunitensi vicini a Donald Trump”. I quali ultimi, è noto, non amano molto papa Francesco. 

 

Su di lui, un giornale ha scritto così: “Il fatto che la terza carica dello Stato manifesti questo tipo di militanza ultratradizionalista, antimoderna e anticonciliare, costituisce di per sé un problema politico e religioso. Ricordiamo che posizioni come queste, rimaste ferme al Concilio di Trento, restano contrarie a tutta la pastorale della Chiesa, arrivando a considerare i Papi, da Wojtila in poi, pressoché degli eretici”. Chissà Francesco, allora, viene da commentare! 

 

In realtà, nonostante ciò, Fontana, nel suo discorso d’insediamento, ha rivolto un deferente saluto a questo Papa. Lo ha fatto perché, è stato anche scritto un poco maliziosamente, “nella sua esperienza, le posizioni religiose ultraconservatrici sono sempre subordinate ai suoi interessi politici”. Altri, in proposito, hanno parlato, nientemeno, di “deriva clerico-fascista”, che fa appunto seguito alla scelta di aver affidato la seconda carica dello Stato, invece, a un “nostalgico del passato regime”. Fontana, tra l’altro, sino a ieri simpatizzava per Putin e presumibilmente per il suo “pope” Kirill, e ragionava così, sulla Russia attuale: “Se trent’anni fa la Russia, sotto il giogo comunista, materialista e internazionalista, era ciò che più lontano si possa immaginare dalle idee identitarie e di difesa della famiglia e della tradizione, oggi invece è il riferimento per chi crede in un modello identitario di società". Difesa della famiglia, certo!, un po’ meno della pace internazionale. 


Ciò detto, parlare di clerico-fascismo accennando a Fontana è certo esagerato, ma, nella mia mente, rimanda a considerare più in generale l’atteggiamento politico della componente cattolica che simpatizza per la destra di Meloni e Salvini in particolare. In proposito, io rinvio all’ormai famoso manifesto di “Zamagni” -il noto economista cattolico presidente tra l’altro della Pontificia accademia delle scienze sociali-, ispiratore” dell’iniziativa che, pur con fatica, sta provando a lanciare, con mie non lievi perplessità, un “nuovo soggetto politico d’ispirazione cristiana aperto a credenti e non credenti, finalizzato ad offrire una vera alternativa a un sistema politico finito definitivamente in crisi”. Nel citato manifesto, si segnala anche la forte caduta, nel nostro Paese (soprattutto?) dei valori etici, nelle sfere sia del privato che del pubblico, e si considera che “le passioni ideali della solidarietà e della tensione civica” sono state sostituite dagli egoismi sociali e dall’individualismo libertario”. Un individualismo che oggi, in politica, sarebbe stato fatto proprio -è l’accusa che viene fatta mediamente dai cattolici moderati che non hanno mai accettato il connubio tra “post-comunisti” e “post-democristiani”- dal Pd in particolare, per esempio con le …Cirinnà di turno, diventate, dicono, le rispettive “portabandiere”. Un individualismo frutto, ribadiscono, della storica cultura della “sinistra”, del ’68, e dei suoi discendenti. Cultura che avrebbe via via prodotto molti guasti anche sul piano “morale”, e la decadenza dei costumi. 

Attribuire però la caduta dei “valori” ai …”comunisti” o post tali, ai sessantottini, ai radical-chic di sinistra, e compagnia cantante (che pure qualche colpa l’hanno, ovviamente), fa sorridere, suvvia. Certo, la “secolarizzazione” (non tutta da buttare, anzi!) ha via via portato, in presenza di una Chiesa forse non debitamente preparata, sul tema, a considerare “diritti” fenomeni sino a prima considerati deprecabili (ci capiamo). Ma non si può non considerare che a produrre l’individualismo esasperato, l’egoismo, l’edonismo, il consumismo, ha contribuito (e contribuisce) in maniera determinante la “cultura” (?) imposta in particolare, a partire da qualche decennio fa, dalle tv “liberalizzate”, quelle di Silvio in primis. E cosa passa oggi in proposito il convento “mediatico” lo sappiamo bene! Avete in mente i famosi “realities” alla “Grande fratello”? In realtà, a provocare, diciamo così con linguaggio d’antàn, la citata “decadenza dei costumi” ha anche contribuito, e non poco, un certo modo di gestire il sistema capitalistico, i disordini e gli squilibri del predominio incontrollato della finanza sull’economia reale, eccetera, eccetera. 


In ogni caso, oggi in particolare, a me pare che se per i cattolici impegnati in politica, ma non solo per questi, un riferimento in una certa misura “operativo” continua ad essere la “dottrina sociale” della Chiesa, non si può non prendere atto che la stessa dottrina, fortunatamente, è stata via via aggiornata tenendo conto delle grandi mutazioni intervenute nella società. E allora è inevitabile segnalare che le espressioni recenti più significative e, appunto, attuali di tale dottrina sono le note encicliche di Francesco: “Laudato Sì” e “Fratelli tutti”, cui sarebbe da aggiungere il documento sulla “Fratellanza umana”, firmato insieme dallo stesso papa e dal grande Imam di Al-Azhar nel 2019 ad Abu Dhabi. La domanda, allora, è: siamo in proposito sicuri che detti documenti piacciano in egual misura a destra e a sinistra, o, se vogliamo, a centrodestra e centrosinistra? E sui cosiddetti “valori non negoziabili” non posso non segnalare che ho casualmente scoperto solo nelle scorse settimane il testo dell’intervista di De Bortoli a papa Francesco dopo il suo primo anno di pontificato, intervista apparsa sul Corrierone del 5 marzo 2014 e che trovo positivamente sorprendente. Un’intervista non poco contestata, guarda caso, nel mondo cattolico-integralista, tradizionalista, conservatore, e via discorrendo. Il mondo dei mons. Viganó e degli Steve Bannon, mi viene da dire, senza fare nomi italiani. Nella stessa, papa Bergoglio parla con accenti nuovi dei problemi della famiglia, della coppia, della sessualità, eccetera. Dicendo ad esempio: “I divorziati non vanno condannati; vanno aiutati”. E a proposito dei “valori non negoziabili” dice invece: «Non ho mai compreso l’espressione ‘valori non negoziabili’. I valori sono valori e basta. Non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano esser valori negoziabili. Quello che dovevo dire sul tema della vita, io l’ho scritto nell’esortazione Evangelii Gaudium». Alla domanda, poi, se ha senso prolungare artificialmente la vita in stato vegetativo, Bergoglio risponde: “Io non sono uno specialista negli argomenti bioetici. E temo che ogni mia frase possa essere equivocata. La dottrina tradizionale della Chiesa dice che nessuno è obbligato a usare mezzi straordinari quando si sa che è in una fase terminale. Nella mia pastorale, in questi casi ho sempre consigliato le cure palliative. In casi più specifici è bene ricorrere, se necessario, al consiglio degli specialisti”. Infine, quando gli chiedono se gli sono dispiaciute le accuse, soprattutto americane, di marxismo, commenta così: “Per nulla". Non ho mai condiviso l’ideologia marxista, perché non è vera, ma ho conosciuto tante brave persone che professavano il marxismo”. 

Per non parlare, infine, delle aperture dello stesso Francesco sul tema dell’omosessualità. Essendo della diocesi di Milano, segnalo semplicemente, in argomento, il titolo del “Segno” di ottobre: “Il tabù e l’ascolto. L’omosessualità è ancora fonte di chiusure e imbarazzi nella comunità ecclesiale. Eppure si moltiplicano gli esempi positivi di accoglienza e dialogo. A partire da Milano”. Orbene, quand’ero ….chierichetto (o …, forse meglio, ragazzotto, mi vien da commentare) mi sarei forse alquanto stupito a leggere un simile titolo! 

Un Papa, dunque, che non cambia la dottrina e i principi morali, ma che è consapevole di dover parlare all’uomo “contemporaneo”, come faceva Gesù.

 

Per chiudere, dovrei anche trattare dell’alternativa a questo governo, ma …ci sarebbe da piangere. In proposito segnalo in ogni caso questo: visti i risultati elettorali, più o meno tutti i media hanno titolato correttamente “Centrodestra”, attribuendole il 44% circa dei voti, la coalizione che ha messo insieme Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, e i “moderati” di centrodestra. Chiamando poi similmente “Centrosinistra”, attribuendole la percentuale del 26,1%, la coalizione di Partito democratico, più Alleanza verdi e sinistra, più +Europa. Il problema, al riguardo è che, a queste elezioni, disgraziatamente, fuori dalla citata coalizione definita tout-court dai media, appunto, di “centrosinistra”, c’erano un’altra lista di centro non orientata sicuramente (o sbaglio?) a destra, quella del cosiddetto “Terzo polo”, nonché anche quella del “nuovo” M5S, pur vagamente definibile di sinistra, o comunque non di destra. Caratterizzo così (“vagamente definibile”) il partito dei pentastellati perché a me fa un po’ sorridere il tentativo di Conte -che pure ha fatto un governo con tal Salvini (nientemeno!)- di presentarsi, adesso,  come una sorta di “Che Guevara de noantri”. E sto parlando di quel Conte che pure io ho in qualche misura apprezzato, e di quei “Cinquestelle” la cui scelta a favore del “Reddito di cittadinanza” non ho certo disprezzato, anche se ora mi pare sia giusto rivederne in qualche misura il meccanismo. 

Potrei a questo punto sintetizzare, allora, dicendo che in Italia, a fronte, di un “destracentro” che si attesta, sempre con riferimento ai dati Camera, su una percentuale vicina al 45%, c’è un insieme di partiti di “centro” non destroide (diversamente dai Lupi, ecc.), di “centrosinistra”, e di “sinistra”, diciamo, di governo, che supera pur di poco il 49%: Pd, più Alleanza Verdi e Sinistra, più Bonino, col 26,1% totale, Mov. 5 Stelle, col 15, 4%, Azione più IV, col 7,8%. Il dato più eclatante, peraltro, facendo un confronto pur parziale con le politiche del 2018, è che se i “democratici” avuto hanno un lievissimo miglioramento (da 18,7 a 19,1%), i “Cinquestelle di Conte hanno confermato la dèbacle (dal 32,7 di allora al citato 15,4% di oggi).

Certo, ma il centrodestra è stato furbo e ha fatto coalizione formale. Il “Centrosinistra” (che potrebbe dunque mettere insieme tutti i partiti appena sopra citati), NO.

Già. Ma la colpa è di Letta, proclamano all’unisono Conte, Calenda e Renzi. 

Balle, a mio parere, detto con convinzione! Perché il segretario Pd ha cercato ripetutamente di formare il “campo largo”. Un campo, ovviamente, di “centrosinistra”, appunto, naturalmente a vocazione di governo. Ma Calenda, il giorno dopo l’accordo con Letta (che non può non avergli riferito che in una coalizione di centrosinistra bisognava appunto guardare anche alla sinistra “governativa”), ha rotto i ponti facendo la sua lista con un Renzi ormai convertito, politicamente, al “centrismo”. Una lista che peraltro ha ottenuto un risultato indubbiamente inferiore alle migliori aspettative (qualche suo esponente aveva evocato in proposito un esito almeno a due cifre, parlando di un 12%), e che, mi pare di poter dire, non è servito minimamente, nonostante l’obiettivo fosse dichiarato, a ridurre significativamente la forza del centrodestra/destracentro e, conseguentemente, la febbre da “melonite” del Paese. Il “Terzo polo”, cioè, com’era prevedibile, non ha sostanzialmente “rubato” voti al centrodestra, bensì al centrosinistra. E Giuseppe Conte non poteva non capire che il robusto contributo dato dal suo partito all’operazione di siluramento del governo Draghi, in un momento tra l’altro così delicato, avrebbe impedito, a ridosso di queste elezioni, un’alleanza elettorale PD-M5S. Fermo restando che un dialogo e un confronto tra i due partiti andrà ripreso, a tempo, diciamo, debito. Sul tema “governo Draghi”, poi, io confesserò peraltro che mi ero un pizzico illuso, pensando alle elezioni, ragionando così: la caduta del suo governo è stata stigmatizzata quasi all over the world, a partire ovviamente da grandissima parte degli italiani: conseguentemente, è pensabile che una grande parte degli elettori castigherà i suoi affossatori. Ma dimenticavo, evidentemente, come sono fatti, mediamente, gli ita(g)liani. Il cui voto va in ogni caso rispettato, certo! 


La mia conclusione sintetica in argomento è comunque che, di là dagli errori -che pure ci sono stati- di Letta, i signori Conte, Calenda e Renzi si sono assunti un’antipatica responsabilità nella vicenda che ha portato ad avere Giorgia Meloni a capo (presidente? Presidentessa?) a capo del governo.

 

Quanto al futuro, chissà! Mi piace in ogni caso fare mia la conclusione di un articolo di Lino Prenna, di C3dem, che ha commentato così, la situazione, con particolare riferimento alla vicenda del Partito democratico, essendo però evidente che la questione riguarda l’intero centro-sinistra “…In questi anni di estenuazione politica, di fronte alla progressiva caduta delle idealità originarie e l’opzione di una gestione pragmatica, abbiamo anche espresso il timore di possibile egemonizzazione di una componente culturale sulle altre e lo slittamento dell’asse verso una sinistra libertaria. Abbiamo anche formulato più volte l’auspicio che fosse un partito nuovo più che un nuovo partito e che evidenziasse, nella sua struttura organizzativa, la propria natura popolare, la collegialità effettiva degli organi gestionali e deliberativi, la distribuzione territoriale della sua presenza, l’apertura alla società civile e all’associazionismo politico.

Oggi, dobbiamo riconoscere che l’auspicio è stato disatteso e che il progetto originario, pur nato da una dichiarata volontà comune, non è stato sviluppato. Così, il partito è caratterizzato dalle correnti più che dalle culture di provenienza. E tuttavia, proprio per la mancata realizzazione, quel progetto conserva il suo potenziale di attualità e può costituire il punto di non ritorno per un nuovo inizio. Come ha scritto Pierluigi Castagnetti, nei giorni scorsi, “occorre reinventare il PD”, nel senso, aggiungiamo noi, dell’invenire latino, cioè ri-trovare le ragioni che ne hanno fondato il progetto originario. Ritrovare le ragioni significa tornare al popolo: “trovare un’anima, un senso, una mission che il popolo riconosca e in cui si riconosca”.

 

Poiché siamo a Milano, per chiudere davvero dovrei fare anche questo nome: Moratti. Ma non sono assolutamente pronto a parlarne, …nonostante che Debenedetti voglia imporcela! 

 

 

VINCENZO ORTOLINA

 

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