Riceviamo e pubblichiamo l'opinione di un nostro iscritto
DD
In queste settimane l’opinione
pubblica si è concentrata sul dibattito relativo al mercato del lavoro, data
l’accelerazione del governo che ha manifestato
la volontà di approvare il Jobs Act, entro i primi mesi del 2015.
L’esposizione mediatica del tema
si è concentrata principalmente sul dibattito relativo alle modifiche allo
statuto dei lavoratori, ed in particolare alla disciplina del licenziamento
regolata dall’articolo 18 dello stesso. Occorre tuttavia ricordare che la
proposta di riforma del lavoro fatta, contiene una serie di provvedimenti che
rispondono alle necessarie esigenze del mercato, che oggi risulta essere ben
diverso dal contesto economico e sociale degli anni 70, in cui fu scritto
appunto lo statuto, anni di certo non influenzati dalla globalizzazione e da un
“mondo” che corre sempre più veloce e
che ha la necessità di essere in un certo senso sempre più rapido e flessibile.
Tra queste ricordiamo:
- L’eliminazione delle numerose fattispecie di contratti a tempo determinato e l’introduzione di un contratto unico a tempo indeterminato a tutele crescenti.
- L’abolizione della cassa integrazione, molto spesso utilizzata in modi opportunistici dalle imprese, con l’introduzione di moderni ammortizzatori sociali, che si faranno ad esempio carico del lavoratore che ha perso il lavoro e lo accompagneranno in un percorso formativo/rieducativo che consenta allo stesso di ritrovarlo, garantendo fin da subito un reddito minimo per consentirgli una vita sociale dignitosa.
- L’introduzione di meccanismi partecipativi dei lavoratori nella governance delle imprese, ad esempio tramite le rappresentanze degli stessi nei consigli d’amministrazione, così come per altro avviene nella maggior parte dei nostri paesi partner Europei.
Si è di fronte quindi
all’introduzione di nuovi meccanismi che, se approvati dal Parlamento, porteranno
elementi innovativi nel mercato del lavoro e che insieme all’azione del Governo
volta alla progressiva riduzione del cuneo fiscale sul lavoro e sui redditi d’impresa,
con provvedimenti come il bonus fiscale di 80 euro per i redditi inferiori a
25.000, oppure la riduzione dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive
(IRAP), potrebbero rivelarsi efficaci per rendere il nostro Paese attrattivo
dal punto di vista degli investimenti interni ed esteri. Rimettere in moto gli
investimenti vuol dire essenzialmente creare le condizioni per cui si creino
nuovi posti di lavoro.
E’ chiaro che oggi nessuno può dire
se questa sia la strada più giusta, una corretta valutazione di una buona
politica economica dovrebbe tenere in considerazione il medio-lungo termine
(5-10 anni), tuttavia occorre segnalare come l’azione del governo a guida PD,
rappresenti una chiara inversione di tendenza, rispetto a quella dei governi precedenti
e rispetto alle politiche di austerity richieste dall’Europa (pur rispettando i
vincoli del patto di stabilità UE).
Lasciando le questioni sopra
affrontate e guardando più all’economia reale e meno a norme e aspetti
riguardanti modelli economici, occorre chiedersi perché il premier Renzi si stia battendo sempre più sulla necessità di riforma del mercato del lavoro. Ebbene si sta uscendo da una
crisi sociale ed economica che ha prodotto in Italia un livello di
disoccupazione record, con un tasso complessivo del 12,3% che arriva a toccare
il 44,2% a livello giovanile, con numeri
così “spaventosi” è chiaro come sia indispensabile intervenire, perché si è
difronte ad un fenomeno che se non frenato porterà ad incrementare disuguaglianze
e disagi sociali. Dal punto di visto politico una forza di sinistra e
riformista come il Partito Democratico
non può fare a meno di creare le condizioni per cui questo enorme problema si
risolva. Rispettando le idee, i pensieri maggioritari e minoritari, un grande
partito deve avere il coraggio di arrivare ad un sintesi e fare sua una
proposta che tenga in considerazione sia le condizioni sociali dei lavoratori
che le necessità delle imprese, che competono oggi sempre più in mercati non
omogenei, destrutturati e complessi. Bilanciare questi due aspetti è indispensabile
per fare in modo che le imprese siano in grado di poter creare e offrire nuovo
lavoro. La responsabilità della svolta a livello occupazionale nel nostro paese
però non deve essere solo attribuita all’efficacia di una riforma del mercato
del lavoro ma occorre un cambio di passo anche sotto altri importanti aspetti:
- Nella necessità di ridefinire un piano di sviluppo industriale e commerciale a livello nazionale.
- Nella “cultura aziendale”, l’impresa italiana soffre la piccola dimensione e l’assenza di grandi public company, la scarsa attenzione alla ricerca e sviluppo e all’innovazione.
- Nella scuola e nell’istruzione superiore, altro tema fondamentale anch’esso prioritario per il governo, in quanto strumento fondamentale per formare la “forza lavoro” e la classe dirigente futura.
DD
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